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lunedì 9 agosto 2010

Camera 113 - La stanza bianca

Tu che parli al telefono e intessi le trame che vuoi (come sai farlo bene...). Poi arrivi.
Entri in questa stanza in una penombra di luce riflessa da chissà dove. Tre letti sono disposti con la testata addossata alle tre pareti attorno.
Seduta a terra, io. E tu ti avvicini. Ed io guardo i tuoi occhi con le loro mille vite a fargli da cornice e tu che sei piu' vicino.
Vicino.
Vicino da toccarmi.
Avvolto nel silenzio ti inginocchi e io ti scivolo tra le braccia, aderisco al tuo petto, respiro il tuo odore che già si confonde col mio e le parole che avevo si diluiscono fino a dissolversi nel desiderio del solo essere-con-te, semplicemente.
Eppure devo uscire (incomprensibilmente ma devo).
Un lungo corridoio che svolta a sinistra e due porte che si specchiano. In una ci sei tu papà, in un letto che riluce nell'oscurità della stanza, candido. Sei tu come l'ultima volta che ti ho visto, solo che il letto stava sulla sinistra col comodino grigio a fargli da accento mentre adesso il letto sta nel fondo della stanza nell'angolo a destra. Tu hai lo stesso sguardo che dice che stai bene che non stai soffrendo e che guarirai e mi sorridi ed io mi fermo sulla soglia a guardarti assorbendo la tenerezza che dai tuoi occhi si riflette nel biancoperfetto e mi si rovescia addosso avvolgendomi completamente.
Proseguo, devo, ed entro (è necessario). C'è una donna vestita di bianco ma è un bianco che smarrisce, un biancoassente. Apro il palmo della mano sinistra e vedo una vena blu nella quale la donna infila un grosso ago che affonda  e affonda a lungo dentro di me appropriandosi del mio sangue mentre il dolore sale dalla mano per scorrermi fin nella colonna.
Torno da te che mi aspetti nella prima stanza, in penombra. E sei sopra di me fremente e per un attimo mi dimentico e sento solo fino a dissolvermi nella bellezza perfetta di  questo momento.
Fino a che vedo i tuoi vestiti farsi di fiamma, rossi e del sangue scorrere dal tuo fianco.
O dal mio.

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